giovedì 27 marzo 2014

il colore e il dolore



In filosofia, non avendo di solito la possibilità di compiere esperimenti con la natura come fanno gli altri scienziati, si lavora spesso per il tramite di esperimenti mentali. Un esperimento filosofico mentale non consiste solo nell'immaginare una situazione difficile da replicare fattualmente e cercare di dedurne le conseguenze, appunto, fattuali (cosa che ancora non ci farebbe uscire dall'ambito della fisica), ma consiste soprattutto nel tentativo di sottoporre a stress determinati concetti (da chiarire), immaginando situazioni nelle quali troveremmo difficile decidere come andrebbero applicati quei concetti.

Daniel Dennett ha scritto recentemente un libro, intitolato Intuition Pumps and Other Tools for Thinking, fatto tutto di esperimenti mentali famosi e meno famosi (da lui però chiamati "pompe d'intuizione"), che può anche essere considerato un'ottima introduzione alla filosofia, dato che scopo degli esperimenti mentali è anche quello di stimolare l'immaginazione e divertire, cosa che non sempre si concilia col duro lavoro speculativo. Con l'avvertenza al lettore non esperto che Dennett non è affatto un autore imparziale quando si tratta di descrivere un problema ma cerca sempre di imporre il suo punto di vista. Pregio dell'opera, d'altra parte, è anche quello di evidenziare come le "pompe d'intuizione" spesso rappresentino un grave pericolo per la chiarezza di pensiero, contribuendo a intrappolare l'immaginazione in trappole cognitive senza uscita o quelli che Wittgenstein avrebbe chiamato "crampi del linguaggio".

Dennett è famoso soprattutto come filosofo della mente, per cui non è sorprendente che buona parte del materiale da lui raccolto verta intorno al tema della "coscienza", della sua sfuggente natura, e dei "qualia". I qualia sono appunto una cosa difficile da definire senza fare ricorso agli esperimenti mentali, sono la componente fondamentale della nostra esistenza in quanto esseri senzienti, ma al tempo stesso non riusciamo esattamente a determinarne la natura, a incorniciarli in un quadro coerente e unificato col resto del nostro sapere naturalistico. Paradossalmente alcuni filosofi ne rivendicano l'importanza proprio per rendere giustizia a quelle che secondo loro sono le intuizioni dell'"uomo della strada", non adulterate dai sofismi, però trovano molto complicato spiegare all'uomo della strada quelle che dovrebbero essere le sue intuizioni, ed ecco che inventano gli esperimenti mentali più strambi nel tentativo di farsi comprendere.

Dennett (la cui posizione, comunque, è che i qualia non esistono) comincia quindi la sezione sulla coscienza parlando di zombi: è concepibile che le persone che incontro per strada, o addirittura i miei più intimi amici, pur comportandosi in maniera apparentemente ed esteriormente normale siano in realtà esseri non senzienti, privi di coscienza? Parla poi della stanza cinese ideata da John Searle (ne avevamo parlato anche su questo blog, anche se più in relazione al tema dell'intelligenza che a quello della coscienza). Parla del pipistrello di Thomas Nagel: cosa si prova ad essere un pipistrello, ma soprattutto perché si prova qualcosa ad essere quello siamo? e i qualia, per dare una prima definizione, sono proprio quello che si prova ad essere qualcosa, quello che invece manca agli zombi.

Parla di Mary, la scienziata del colore di Frank Jackson: immaginiamo che Mary sia una donna che ha sempre vissuto in un ambiente rigorosamente in bianco e nero, e non abbia mai visto il colore in vita sua (inserite dettagli a vostro piacere per rendere plausibile questa circostanza). Mary per tutta la vita ha però studiato il colore, nel senso che ha letto tutto quello che c'è da leggere sul tema del colore, sulle reazioni fisiologiche e psicologiche degli esseri umani di fronte al colore, sulle proprietà fisiche degli oggetti colorati, delle onde elettromagnetiche, eccetera eccetera. Mary in sintesi è la più grande esperta mondiale in tema di colore. Un giorno, si viene invitati a immaginare, Mary viene liberata: per la prima volta in vita sua vede un oggetto di colore rosso (mi piace pensare che sia una mela, il frutto dell'albero della conoscenza). La domanda è: Mary ha imparato qualcosa di nuovo sul colore? Se diciamo di sì quel "qualcosa", ovvero quello che rimane del colore rosso una volta escluso tutto quello che di "oggettivo" conosciamo intorno al rosso, la sensazione soggettiva purificata, ebbene quello è il qualia del rosso.

Stranamente Dennett non inserisce tra le sue pompe d'intuizione un esperimento mentale ben più antico e nobile di quello di Jackson, anche se abbastanza affine: l'esperimento dello spettro del colore invertito ideato da John Locke nel Saggio sull'intelletto umano. Immaginiamo che nottetempo uno scienziato malvagio si diverta a pasticciare con i nostri centri nervosi e in particolare con i neuroni che associano determinati colori a determinati input provenienti dalla retina. Il risultato è che la mattina, svegliandoci, vediamo verde tutto quello che prima era rosso, e rosso tutto quello che prima era verde. L'esperienza sarebbe senz'altro scioccante, e ci farebbe anche fare un mucchio di errori. Per abitudine passeremmo al semaforo quando è rosso (percependolo verde) e ci faremmo del male, oltre a renderci ridicoli in una quantità di altre maniere. Piano piano, però, ci abitueremmo. Non solo cominceremmo a non avere più difficoltà col semaforo, ma a un certo punto, per comodità di linguaggio, cominceremmo a chiamare rossi gli oggetti che percepiamo come verdi, come i pomodori e le mele (perché avremmo imparato che tutto quello che per noi è verde per tutti gli altri è rosso).

La domanda è: se invece io fossi nato proprio con questo difetto, come potrebbe qualcuno accorgersene? Come faccio ad essere sicuro che non sia proprio così che stanno le cose, che tutto ciò che io percepisco come rosso per gli altri non è verde? Funzionalmente infatti non vi sarebbe alcuna differenza: io chiamerei rossi gli oggetti che per tutti sono rossi e mi comporterei di conseguenza, e nessuno, me compreso, penserebbe mai che c'è un problema nel modo in cui percepisco le cose. Il qualia, ancora una volta, è questo: è quel qualcosa di non cognitivo, di non funzionale, in una parola di assolutamente inutile e inerte, che contiene la sensazione soggettiva del rosso. L'enigma, da un punto di vista filosofico è: dato che non serve a nulla, perché esiste? e siamo proprio sicuri che esista? e d'altronde come si fa a negarne l'esistenza? noi il rosso lo percepiamo proprio così, come rosso, e farebbe certamente una differenza, per noi, se lo percepissimo come verde. O no?

Tuttavia, io credo esista un modo ancora più efficace per spiegare i qualia, neanche questo, mi pare, affrontato da Dennett, e che ha a che fare, invece che col colore, con il dolore. A mio modesto avviso la pompa d'intuizione migliore per quanto riguarda i qualia, infatti, è la semplice domanda "a che serve il dolore?". È, apparentemente, una domanda molto stupida, ma solo perché siamo talmente abituati e affezionati ai nostri schemi mentali che non ci accorgiamo come le risposte più immediate al quesito in realtà non facciano che eludere il problema. Ovvero, è chiaro che il dolore è utile perché le cose che ci fanno male quando veniamo a contatto con loro (che ci danneggiano in maniera oggettiva, come ad esempio il fuoco) tendono anche ad essere dolorose, quindi, siccome tendiamo ad evitare il dolore, tendiamo anche ad evitare le cose che ci fanno male. Giusto?

Uhm... non vi accorgete che si tratta di una spiegazione vacua, una petizione di principio, che in realtà non è stato fatto alcun passo avanti per comprendere la funzione del dolore? Perché la natura, invece di fornirci della motivazione ad evitare il dolore, non ci ha fornito della motivazione diretta ed immediata ad evitare gli stimoli dannosi tout court? Non sarebbe stato più semplice? Perché questo passaggio intermedio immotivato, oltre che crudele?

Riformulo l'argomento. Immaginiamo di dover progettare un robot semi-intelligente ed autonomo, che per svolgere le proprie funzioni deve saper fuggire i pericoli di un ambiente ostile (evitare l'acqua che ne danneggerebbe i circuiti, il fuoco, ecc.) e al tempo stesso deve essere in grado di alimentarsi, mantenersi in buono stato e riparare eventuali danneggiamenti. Lo programmeremmo, credo, in modo da fornirgli delle istruzioni, non importa quanto complesse, del tipo "se entri a contatto con l'acqua, allora allontanati e cerca un ambiente secco finché non ti sei asciugato", "se qualcosa ti percuote, tu percuotilo a sua volta", "se le tue batterie sono scariche, cerca la più vicina presa di corrente e attaccaci il cavo". Lo forniremmo anche della capacità di provare dolore? e perché mai dovremmo? in che modo questo dovrebbe rendere più efficaci le risposte del robot? non sarebbe anzi una crudeltà gratuita? come ci giustificheremmo di fronte a lui, se ce lo rinfacciasse?

Forse posso spiegarmi ancora meglio. Con un trucco puramente terminologico, io potrei chiamare "dolore" quel complesso di input percepiti dal robot, di qualunque natura essi siano, che lo spingono ad adottare certi comportamenti improvvisi di "fuga". In tal modo la risposta alla domanda "perché il robot ha ritratto il suo arto meccanico quando è entrato in contatto col fuoco?" sarebbe, con tutta evidenza, "perché stava provando dolore, ed è stato programmato in modo da evitare il dolore". Da un punto di vista funzionale, direi anche evoluzionistico, la risposta oltre che soddisfacente sarebbe sostanzialmente identica alla spiegazione del perché "noi" tendiamo a ritrarre la mano quando veniamo ustionati: siamo stati programmati così. Eppure sentiamo anche che c'è una differenza profonda. "Noi" a differenza del robot sentiamo davvero il dolore, per noi rimane qualcosa di irriducibile, oltre a quel complesso di risposte funzionalmente efficaci, e questo qualcosa è il qualia del dolore. Ma a cosa serve?

Questo dovrebbe essere un post aporetico, ovvero ha l'unico scopo di segnalare l'esistenza di un problema, e la sua natura, senza pretendere di fornire una soluzione (che naturalmente non ho). Tuttavia, un labile indizio forse può essere dato. Devo dire che i miei post a volte nascono da discussioni casuali che faccio in rete, che poi sento il bisogno di approfondire. Quando mi è capitato di menzionare le problematica dei qualia e in particolare di chiedere quale fosse la funzione del dolore, mi è stato subito risposto, come prevedibile, che il dolore fornisce una motivazione più immediata e più urgente di una semplice valutazione cognitiva di un eventuale danno, ovvero che non siamo vulcaniani freddi e razionali che pesano tutti i pro e i contro ma abbiamo bisogno delle emozioni per poter agire con maggiore velocità ed efficacia.

Come si è visto io in realtà non ho mai postulato da nessuna parte che la migliore risposta allo stimolo dannoso dovrebbe essere calcolata, anche da un robot, in modo freddo, distaccato e razionale. Al contrario, ho supposto un meccanismo di risposta (un semplice circuito di tipo if ... then) ancora più immediato della nostra risposta al dolore, di tipo assolutamente stupido e meno complesso anche delle nostre risposte emotive. Quindi resta ancora la domanda: perché Madre Natura non ci ha fornito, nel corso dell'evoluzione, di un meccanismo altrettanto semplice e immediato, invece di passare per l'intermediario del dolore?

La risposta a questo stavolta è stata che noi siamo organismi infinitamente più complessi appunto di una macchina fornita di quel tipo di circuiti, che abbiamo molteplici esigenze e desideri contrastanti fra loro e che può risultare estremamente difficile conciliarle fra loro. Ora, tralasciando il fatto che neanche questo mi pare fornire una teodicea soddisfacente, uno straccio di spiegazione al nostro problema originario ("perché esiste il dolore?"), spero che sia abbastanza chiaro che le due argomentazioni sono in netto contrasto fra loro. Prima il dolore è stato giustificato in base alla sua natura "semplice", "immediata". Insisto su questi aggettivi perché sono le caratteristiche tradizionalmente attribuite ai qualia. In seguito, però, è stato fatto appello alla complessità della psicologia umana.

Ecco, io credo che la seconda strada sia più promettente. Forse Dennett ha ragione e i qualia non esistono, se per essi intendiamo quello che ci verrebbe naturale e intuitivo intendere, ovvero se li pensiamo come entità "semplici" e "immediate". Forse quello che chiamiamo "dolore" è in realtà un insieme estremamente complesso di valutazioni cognitive, di ricognizioni su quello sta accadendo, sulla sua importanza e sulle conseguenze per l'organismo, e sulle possibili risposte da attuare. Un insieme troppo elaborato e profondo perché noi possiamo avervi accesso in maniera trasparente, che viene quindi sintetizzato al nostro io cosciente sotto forma di "qualia".