mercoledì 4 febbraio 2015
storia di profeti ed impostori
Nell’enciclica Ascendit de mari del 1239 Gregorio IX, fra i tanti misfatti di cui accusava l’Anticristo stupor mundi imperatore del Sacro Romano Impero Federico II, inseriva anche quello secondo il quale Federico avrebbe dichiarato che i fondatori delle tre principali religioni monoteiste allora conosciute, la giudaica, la cristiana, e la musulmana, erano tutti quanti impostori che ingannarono il mondo. È l’inizio della leggenda del Trattato dei tre impostori o De tribus impostoribus, che si supponeva composto dal letterato Pier della Vigna su ordine dell’imperatore.
Un libro blasfemo, un compendio di empietà e un viatico per l’ateismo la cui idea doveva disgustare, spaventare, e allo stesso tempo fatalmente affascinare le generazioni di intellettuali dei secoli successivi, che attribuirono la composizione dell’opera ai più svariati personaggi controversi loro contemporanei – non preoccupandosi molto, a quanto pare, dell’incoerenza per la quale un libro che si supponeva circolare dal XIII secolo veniva attribuito a Jean Bodin, Pietro Aretino, Giordano Bruno, Erasmo da Rotterdam, Pietro Pomponazzi, Tommaso Campanella, Baruch Spinoza e molti altri.
Lo storico Georges Minois nel suo saggio Il libro maledetto ci narra con passione le vicende dell’opera che a un certo punto finisce davvero per vedere la luce, anche in diverse versioni. Il libro è troppo ricercato da curiosi e da bibliofili per non costituire una ghiotta occasione per editori e stampatori senza scrupoli, che raffazzonano da diverse fonti un prodotto più o meno credibile, più o meno sacrilego: se il De tribus impostoribus non esistesse bisognerebbe inventarlo*, e quindi lo si è inventato. Non si tratta solo di romanzesche avventure bibliografiche con misteriosi anonimi autori che agiscono nell’ombra, in un gioco di inganni e finzioni che ricorda una trama di Umberto Eco – del trattato parlano tutti male, perché non se ne può parlare bene, ma parlandone male finiscono per fargli pubblicità, spesso se ne riassumono le tesi principali col pretesto di confutarle ma in modo che la confutazione appaia meno convincente del confutandum. Il libro di Minois finisce per essere, dicevo, anche una piccola storia dell’ateismo attraverso i secoli (e del resto Minois è proprio autore di una Storia dell’ateismo di maggiore ampiezza).
La sovrapposizione dei due temi, forse necessaria dato che ogni pensatore libertino o sospetto di ateismo è anche automaticamente sospettato di essere l’autore del trattato, mette se non altro in luce un aspetto interessante della storia del pensiero ateo o antireligioso, ovvero il tema dell’impostura. Ovvero per molto tempo nella storia occidentale essere ateo ha avuto un significato lievemente diverso da quello di oggi. Non tanto e non solo di negazione assoluta dell’idea di una divinità qualsiasi (in realtà anche panteisti e deisti potevano essere considerati atei), ma soprattutto negazione della reale ispirazione celeste dei fondatori delle religioni tradizionali, al punto di qualificarli come veri ingannatori di popolo, volgari prestigiatori e illusionisti, arruffatori di masse. Lo scopo dell’impostura, in quella che appare tutto sommato una sorprendente lucidità, è sempre considerato eminentemente politico, a volte visto anche in una luce positiva, come salutare imbroglio a fin di bene, per costruire una nazione e condurla vittoriosamente verso altri popoli.
È un tema ben presente ad esempio nei Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio di Machiavelli, per il quale Numa Pompilio ha il merito di aver introdotto quelle riforme religiose e quei culti necessari a “volere mantenere una civiltà”, anche se per fare ciò dovette simulare di “avere domestichezza con una Ninfa, lo quale lo consigliava di quello ch’egli avesse a consigliare al popolo”. Machiavelli continua dicendo che non vi fu mai un “ordinatore di leggi straordinarie in un popolo che non ricorresse a Dio” facendo anche l’esempio di Licurgo e Solone. Infine arriva a sfiorare lo spinoso tema cristiano, ma solo per dire che è a causa della corruzione dei ministri della chiesa romana che l’Italia si trova così a mal partito. La lamentela è apparentemente devota, in fondo Machiavelli vorrebbe gli italiani maggiormente rispettosi degli originari principi e valori cristiani, ma a ben guardare la sua è una considerazione assai cinica: Cristo è solo un mezzo che giustifica il fine, esclusivamente politico, e l’accostamento con Numa Pompilio potrebbe suggerire che anch’egli fosse un simulatore.
Anche per Hobbes i fondatori di religioni sono al tempo stesso legislatori, ma in maniera ambigua distingue due tipi di tali personaggi: quelli che simulano di avere ricevuto un’ispirazione divina e creano una religione secondo il proprio capriccio, e quelli che invece eseguono effettivamente la volontà di Dio. Numa Pompilio e Maometto appartengono al primo tipo, Mosè e Gesù ovviamente al secondo. La cosa divertente è che spesso i pensatori atei prendono a prestito dai – o talvolta prestano ai – loro nemici gli stessi argomenti dei quali questi ultimi si servono per combattere le religioni avversarie. Per un ebreo Gesù sarà un falso profeta, come Maometto, un cristiano avrà maggior rispetto per Mosè che però è pur sempre un ebreo, ma considererà Maometto il più ignobile fra tutti gli impostori (quando non emergono seminascosti sentimenti di ammirazione o addirittura invidia per sue le capacità di condottiero), mentre almeno l’islam si dimostra in questo molto più tollerante, includendo sia Mosè che Gesù fra i veri profeti.
Al di là della volontà denigratoria rispetto ai fondatori di religioni e verso i loro seguaci emerge insomma un discorso interpretativo tutt’altro che banale, precursore della critica marxiana alla religione come sovrastruttura al servizio del potere e oppio dei popoli. Ma non solo, attraverso l’indagine demistificatoria intorno alle vite dei profeti viene anticipato anche il discorso storiografico moderno, che cerca di separare il Cristo come personaggio storico, da indagare con gli strumenti dell’analisi scientifica, da quello della fede, comunque posto su un piano separato di legittimità. È proprio Spinoza, il più autorevole fra gli “autori” del Trattato, che può effettivamente essere considerato il padre della moderna esegesi biblica, che si svolge per il tramite del confronto fra le varianti del testo, i suoi errori lacune ed omissioni, l’analisi della lingua in cui è scritta, la ricerca delle motivazioni degli autori e l’indagine sul loro ambiente socio-culturale, e sul pubblico cui si rivolgevano. Tutte cose che sicuramente facevano scandalo al tempo di Spinoza ma che per fortuna oggi sono tranquillamente accettate anche dai più intransigenti cristiani.
Anzi, se il Trattato dei tre impostori non si fa molti scrupoli nell’usare gli stessi argomenti dei cristiani contro Maometto, è da notare che è negli stessi ambienti dai quali esce il Trattato che invece cominciano ad emergere voci dissidenti di apprezzamento nei confronti dell’islam e del suo fondatore, giudizi che nascono proprio da una maggiore conoscenza e comprensione dell’Oriente. Ci riferiamo ad esempio alla straordinaria figura del conte di Boulainvilliers (1658-1722), aristo-libertario, primo traduttore francese di Spinoza, che nella sua Vita di Maometto attingendo alla descrizione sociologica e antropologica mette a confronto cristianesimo e islam, giungendo a considerare quest’ultimo un sistema di credenze e un culto tutto sommato più razionale, e criticando la leggenda nera cristiana intorno al suo fondatore. Leggenda che invece sarà ripresa, con cieco furore, da Voltaire proprio in risposta a Boulainvilliers, nel dramma Maometto o del fanatismo. Un Voltaire, questo, oggi particolarmente apprezzato da personaggi certo non vicini all’ideologia illuminista come Magdi Allam (che forse non coglie appieno il messaggio di Voltaire, allora diretto contro Maometto anche in quanto – allora – bersaglio meno rischioso).
Sembra che gli eredi attuali degli “spiriti forti” del XVII-XVIII secolo siano passati attraverso un processo che ne ha filtrato alcune caratteristiche, lasciando solo la parte dell’invettiva antireligiosa**, in una posa anticonformistica ed eroica non proprio e non sempre convincente, almeno oggi che nessuna autorità ha il potere di condurti al rogo per eresia, e i rischi semmai vengono dai margini della società, dalla periferia verso il cuore dell’impero, in cui unica religione di stato è l’assenza (non visibilità) di religione, la laicità. Ma è un peccato, dicevo, che la rivendicazione, sacrosanta, della propria indipendenza di pensiero non sia sempre accompagnata da quello stesso sforzo razionale di comprensione e di critica che animava i coraggiosi atei ed anticristi dei secoli passati, da Federico II a Spinoza passando per Giordano Bruno.
*L’adagio voltairiano “se Dio non esistesse bisognerebbe inventarlo” curiosamente è proprio formulato in una Epistola all’autore del Libro dei tre impostori, opera in cui il celebre filosofo illuminista si cimenta nell’impresa di confutare il Trattato.
** Può essere considerato sintomatico che in seno all’ateismo militante la tesi più in voga riguardo a Gesù Cristo non sia più quella dell’impostura ma quella dell’inesistenza storica (una tesi che pochi storici prendono sul serio), quasi a non voler fare i conti con la sua figura a nessun titolo.
sabato 24 gennaio 2015
il mito dell'istruzione (contro l'obbligo scolastico)
Feci la conoscenza di un calzolaio di nome Schröder… che più tardi andò in America… Mi diede da leggere dei giornali e io poco li leggevo, perché mi annoiavano; ma poi mi interessarono sempre di più… Parlavano della miseria dei lavoratori, e di come i lavoratori dipendevano dai capitalisti e dai grandi proprietari terrieri, in un modo così vivo e vero che ne fui sbalordito. Era come se prima fossi vissuto con gli occhi chiusi. Accidenti quello che scrivevano su quei giornali era la verità. Tutta la mia vita fino a quel giorno ne era una prova (un bracciante tedesco, 1911 circa).
Gli è che la gente non aveva la più lontana idea di ciò che stava per accadere. In fondo i soli veramente ragionevoli erano i poveri, i semplici, che stimarono subito la guerra una disgrazia, mentre i benestanti non si tenevano dalla gioia, quantunque proprio essi avrebbero potuto rendersi conto delle conseguenze. Katzinski sostiene che ciò proviene dalla educazione, la quale rende idioti; e quando Kat dice una cosa, ci ha pensato su molto (Erich Maria Remarque, Niente di nuovo sul fronte occidentale, 1929).
Le due citazioni, la prima delle quali compare ne L’età degli imperi di Eric Hobsbawm,
dovrebbero render chiaro come l’educazione può assumere diverse valenze, anche
in considerazione del contesto nel quale viene somministrata. Nel caso del
bracciante tedesco abbiamo a che fare col potenziale emancipatorio della
lettura, con la capacità che ha di far oltrepassare i limiti ristretti
dell’esperienza quotidiana per meglio rischiararla e far comprendere al lettore
la propria situazione. C’è da chiedersi, naturalmente, chi ha interesse oltre
al bracciante in questione a risvegliare la sua coscienza e fornirgli
l’educazione di cui ha bisogno. Forse i suoi padroni? O non avrebbero piuttosto
interesse i padroni a tenere nell’ignoranza i lavoratori?
Il secondo passo mette in evidenza quello che è il lato
oscuro della scolarizzazione (dal quale, nel caso in questione, i più poveri
sarebbero almeno stati risparmiati a scapito dei benestanti), ovvero l’esatto
contrario dell’emancipazione e del risveglio dello spirito critico, ma
l’indottrinamento e il cieco asservimento agli interessi di un potere
superiore. Peccato che questo secondo lato sia stato relegato sullo sfondo da
una mitologia sempre più pervasiva e onnipresente secondo la quale l’educazione
non può che assumere tutte le valenze positive, tanto da costituire non solo un
diritto di ciascuno, ma addirittura un obbligo che ci viene disinteressatamente
imposto in vista del nostro bene.
Ma mettendo per il momento da parte la polemica sull’obbligo
quello che si vuol mettere sotto osservazione è il mito. “Mito” qui, e seguendo
lo storico dell’alfabetizzazione Harvey J. Graff, ha il senso barthesiano di
sistema di comunicazione che connota ideologicamente la realtà tendendo non
tanto a nasconderla ma a deformarla, a occultare i rapporti di produzione che
la rendono possibile, a occultarne cioè la storicità e problematicità
rendendola “natura”, una realtà non discutibile e che in qualche modo vive
ormai di vita propria, sganciata da ogni contesto storico e da ogni possibilità
di verifica empirica. Con questo, cioè, non si intende denunciare come
interamente “falso” il sapere comune riguardo all’alfabetizzazione, ma
denunciarlo come problematico, ed evidenziare come poggi su basi spesso più
ideologiche che storiche o sociologiche.
Il mito afferma che esiste una cosa, che si chiama
“alfabetizzazione”, il cui possesso a livello individuale coincide non solo con
la capacità di avere successo nel mondo del lavoro e delle relazioni sociali ma
soprattutto con il possesso di tutte quelle qualità che ci rendono “umani” e ci
distinguono dalle bestie. L’uomo è un animale alfabetizzato. A livello
collettivo costituisce invece la misura del progresso di una determinata
società, indissolubilmente legata a qualsiasi altro indicatore di benessere
perché di questo causa o origine prima. La storia di qualsiasi popolo conosce
una drastica cesura dal momento in cui esso viene “alfabetizzato” e
“scolarizzato” e viene quindi strappato da un passato di oralità, di ignoranza
e superstizione dove tali privilegi spettavano soltanto a una sparuta
minoranza. Un popolo alfabetizzato, inoltre, è naturalmente in simbiosi con la
democrazia in quanto in grado di comprendere i propri interessi e di compiere
scelte razionali e mature, mentre le istituzioni di un popolo ignorante sono
condannate a degradarsi e trasformarsi in qualcosa di simile alla tirannia.
Quale più efficace e simbolica espressione del mito potremmo
prendere questa vignetta che ultimamente ho visto passare spesso su Facebook:
Dove il messaggio, al di là dell’ingenuità del credere che i
conflitti del pianeta si risolvano davvero con l’istruzione, è in realtà
profondamente ambiguo perché l’istruzione viene da un lato contrapposta alle
armi, strumenti di violenza e predominio, mentre dall’altro lato se ne dichiara
appunto la natura affine, proprio di strumento di sopraffazione del nemico più
efficace di qualsiasi altro. L’equivoco è anche quello di considerare
l’educazione come ideologicamente neutra, come cosa buona a prescindere dai
contenuti (mentre non è che i talebani siano contrari all’istruzione, anzi,
sono favorevolissimi alla loro peculiare idea di istruzione). Proprio questa
finzione però denuncia l’intento imperialistico, di esportazione non di una
idea neutra di istruzione, che non esiste, ma dei nostri valori occidentali e
della nostra democrazia. Ma se è così non meraviglia appunto la ostinata
resistenza che questa idea incontra in certi contesti da noi considerati barbarici.
Altra espressione emblematica del mito è una dichiarazione
della scrittrice Amélie Nothomb di questi giorni: nel video dove il terrorista
jihadista Amedy Coulibaly rivendica i suoi omicidi si vedono, su uno scaffale,
alcuni libri, tra i quali sono stati riconosciuti anche un romanzo di Pennac e
uno della Nothomb. Il commento della scrittrice è stato che questa non può
essere che una curiosa coincidenza (cosa probabile), anche perché “sicuramente
Coulibaly non sapeva leggere”, laddove il messaggio che si vuol trasmettere è
che i cattivi sono tutti analfabeti, e forse anche che chi non legge (in
particolare i libri della Nothomb) è cattivo. Ancora, di recente uno scambio
verbale fra il primo ministro Matteo Renzi e alcuni eurodeputati leghisti (“è
difficile per alcuni di voi leggere più di due libri, lo capisco”), e la
conseguente reazione, hanno evidenziato come l’accusa di non leggere sia
equivalente a un pesante insulto, e di esempi potremmo ancora produrne a iosa.
Il primo elemento di problematicità è che
l’“alfabetizzazione” non è affatto quella nozione chiara che si potrebbe
pensare, e come potrebbe essere evidenziato dalla proliferazione di aggettivi
qualificativi che sentiamo sempre più il bisogno di aggiungere al termine:
analfabetismo digitale, analfabetismo emotivo, analfabetismo religioso
eccetera. Se originariamente per alfabetizzazione si intendeva solo il processo dell’insegnare a leggere e
scrivere e far di conto (che già è un insieme di competenze piuttosto
complesso) oggi il termine conosce una grande sviluppo verso l’inclusione al
suo interno di qualsiasi competenza considerata in qualche modo utile e
necessaria per l’individuo o per la società (due poli, ricordiamolo ancora, non
necessariamente convergenti). Se quindi da un lato assistiamo, in tutta
evidenza, alla sconfitta dell’idea per cui una società finalmente alfabetizzata
è una società per forza di cose felice, prospera, e democratica, ecco che ci
viene in aiuto la nozione per cui oltre l’80% dei cittadini italiani
soffrirebbe di “analfabetismo funzionale” (quindi tutto a posto, possiamo
continuare a credere nel dogma che dobbiamo continuare a investire
nell’istruzione se vogliamo uscire dal pantano).
Anche attenendoci alla definizione più stretta, però,
dobbiamo prendere atto della non soluzione di continuità, delle innumerevoli
sfumature e ambigue zone di confine che esistono fra la totale incapacità di
leggere e scrivere e l’alfabetizzazione completa, il che può non rendere semplice
stabilire da quale parte della barriera che noi abbiamo voluto stabilire (fra
uomini e bestie) un individuo ricada, o di quanto sia alfabetizzata una società
nel suo complesso. Il che rende difficile anche stabilire quelle correlazioni
che poi dovrebbero servirci a sorreggere il mito. Il problema è che spesso le
misure del livello di alfabetizzazione di una società partono da presupposti
che sono validi solo per il contesto al quale siamo abituati, e che perdono
completamente di senso altrove. C’è ad esempio la tendenza a far coincidere la
capacità di leggere e quella di scrivere, mentre si tratta di due competenze
molto diverse che non necessariamente viaggiano accompagnate. Così le storie
dell’alfabetizzazione che contano quanti dei testimoni di un atto firmassero
con le croci piuttosto che con i loro nomi potrebbero introdurre un dato fuorviante,
anche perché la croce, oggi appunto simbolo di ignoranza, era in passato quel
che oggi è ancora quando non è apposta in fondo a un documento legale, un
simbolo sacro destinato a garantire la veracità del documento più di quanto
potesse fare un nome.
Oggi tendiamo a concepire la lettura come un esercizio
interamente individuale, da svolgersi nel silenzio, che isola l’uomo dalla
compagnia delle altre persone. È chiaro che in questo contesto la misura di
quanto è alfabetizzata una società non può che essere espressa in modo
atomizzato, semplicemente sommando le persone che sono in grado di leggere e
scrivere. In realtà però una società dove una piccola percentuale di persone
hanno queste competenze non deve essere affatto una società dove la parola
scritta non circola in maniera estesa e non raggiunge una grande percentuale di
popolazione, anche fra gli strati più umili. Una persona che non è in grado di
leggere autonomamente non per questo è condannata all’emarginazione, o a non
conoscere i prodotti della cultura anche più alta del suo tempo (così come le
persone più istruite non per questo si salvano dall’isolamento e dalla
ristrettezza mentale), può anzi arrivare a conoscerli in maniera forse anche
più coinvolgente, dato che prevede la partecipazione di altri esseri umani.
Quando costruiamo i nostri racconti di marcia inesorabile verso il progresso
forse dovremmo ricordarci, oltre che di quel che abbiamo innegabilmente
guadagnato, anche di quel che abbiamo perso, ad esempio in termini di
convivialità (per usare un termine caro a Illich).
C’è inoltre la tendenza a enfatizzare la scrittura libraria e
quella secolare, lasciando da parte da un lato quella documentaria, il cui
valore strumentale però poteva essere apprezzato anche da chi non era
interessato a leggere trattati di astronomia, ovvero da chiunque volesse tenere
con sé certificazioni e garanzie dei propri possedimenti legali o privilegi,
cosa valida per il chierico o il nobile ma spesso anche per i ceti artigiani o
persino per insospettati lavoratori della terra. Dall’altro lato si ignora
l’uso non secolare, ma religioso della parola scritta (anche in lingua latina),
la sua funzione nella preghiera e nella partecipazione ai riti religiosi. Da
qualunque parte la si guardi gran parte di quel tanto esecrato medioevo – precedente
alla ambigua “rinascita” umanistica e il suo programma culturalmente elitario
ampiamente responsabile del mito odierno, proprio nel dare tanta importanza
alla cultura libraria e secolare – deve essere rivalutato dal punto di vista
dell’alfabetizzazione: storici come M.T. Clanchy (si veda il suo bel libro From Memory to Written Record) argomentano come nel basso medioevo la
diffusione della parola scritta fosse molto più ampia e apprezzata di quanto
comunemente ritenuto. Quanto alla produzione dei documenti scritti in senso
stretto essa non poteva essere affidata che a una élite molto ristretta, ma questo
per ragioni più tecniche che legate a una presunta sottovalutazione
dell’importanza dell’istruzione in quei secoli bui. Si dimentica anche quanto
lo scrivere fosse davvero un compito tecnicamente arduo prima della diffusione
della penna biro e della carta (per non parlare delle tastiere dei computer),
che richiedeva fatica dedizione e apposita strumentazione, spesso costosa.
Tutto questo serve a spiegare quanto sia poco chiaro e
definito persino l’oggetto della nostra inchiesta, e quanto inquinato da
pregiudizi fin dalla sua formulazione. Ma è tempo di affrontare i famosi
benefici dell’istruzione, e la correlazione con crescita economica benessere e
democrazia. Quanto alla crescita economica, non ho grandi messaggi
revisionistici da lanciare: è chiaro ed è dimostrato da molte ricerche che la
crescita del capitale umano in termini d’istruzione è fortemente correlata con
lo sviluppo economico, anche se gran parte (forse la maggior parte) della
correlazione può essere spiegata da un legame causale in direzione contraria,
ovvero dal fatto che una società ricca è maggiormente in grado di finanziare
l’istruzione dei suoi membri. Anche ammettendo, e volentieri, il legame
sinergico, ci sono comunque varie postille da aggiungere. È intanto probabile
che questo legame tenda ad allentarsi con l’aumentare del livello d’istruzione:
ovvero, la competizione per i migliori posti di lavoro e il migliore reddito
assicurati da un’istruzione superiore tendono a diventare un gioco a somma
zero, dove i vincitori non fanno che togliere risorse ai perdenti piuttosto che
beneficiare la società nel suo complesso. A certi livelli l’effetto potrebbe
persino essere negativo, ma per questo rimando nuovamente al saggio di Raffaele
Alberto Ventura, Abbasso la scuola,
già citato in un precedente post.
Avendo deciso di concentrare il mio sguardo
sull’alfabetizzazione e l’istruzione elementare non posso che rilevare, agli
effetti della critica del mito, che la suddetta correlazione non è né lineare
né certa ma può conoscere varie eccezioni: la più evidente è quella per cui la
Rivoluzione Industriale ha determinato almeno nella sua prima fase un netto
calo della scolarizzazione e della frequenza scolastica (il motivo è abbastanza
semplice e noto: il bisogno di personale nelle fabbriche ebbe inizialmente
l’effetto di svuotare le scuole). C’è da dire del resto che non può che essere
così, essendo molteplici i fattori oltre l’istruzione che vanno a incidere
sulla crescita economica: ad esempio trasparenza ed efficienza delle
istituzioni, mancanza di corruzione e legalità, riforme politiche che
migliorino il mercato del lavoro eccetera. D’altronde il mito vuole che anche
tutti questi fattori siano positivamente influenzati dall’istruzione, quindi
qui bisogna un po’ decidere cosa sacrificare: o l’influenza positiva
sull’economia è meno forte di quanto si crede, o non lo è quella sulla politica
e sulla moralità. Io a dire il vero non ho molti dubbi su cosa sia più
sacrificabile, ma questo lo vedremo poi. Piuttosto, se è indubbiamente vero che
esiste una forte correlazione fra PIL del paese e tasso di alfabetizzazione, è
anche vero che al tempo stesso cresce la sperequazione, la diseguaglianza fra
ricchi e poveri nei paesi industrializzati, quindi ci si può ben chiedere: chi beneficia davvero dell’istruzione di
base obbligatoria? tutti sono compresi nei suoi vantaggi?
Venendo appunto, alla relazione fra alfabetizzazione di un
paese e la sua qualità “morale” c’è intanto da dire che questo era in realtà
l’intento originale dei riformatori ottocenteschi: più del miglioramento
economico l’innalzamento morale delle classi povere, per sottrarle
dall’abiezione dei costumi effetto dell’ignoranza. Si era in un’epoca nella
quale le masse dei poveri facevano paura, nella quale le classi lavoratrici erano
anche percepite come “classi pericolose” (per riprendere il titolo di un famoso
saggio di Louis Chevalier), e si pensò di ridurre il problema cercando di
ingentilirle tramite quel ristretto concetto di educazione che ancora oggi è
sinonimo di bon ton. Evidentemente la
definizione di un parametro di moralità è cosa molto delicata, e quindi un
obiettivo assai pericoloso. Se ad esempio della moralità fanno parte anche
l’obbedienza all’autorità, l’amor di patria, e lo spirito di sacrificio
possiamo pensare che l’educazione dei giovani tedeschi agli inizi del secolo
scorso abbia perfettamente ottenuto il suo scopo, come evidenzia la seconda
delle citazioni con cui abbiamo aperto il post. Mentre il bracciante della
prima citazione è un cattivissimo esempio di educazione per alcuni e ottimo per
altri.
A parte queste relativistiche considerazioni, comunque, mi
pare davvero che mai come in questo caso il mito sia assolutamente impermeabile
a un’evidenza che è tutta contro di lui. Se c’è una cosa che l’educazione non
fa nonostante le venga continuamente attribuita è innalzare il livello di
civiltà di un individuo o una nazione. Anzi, siamo al paradosso per cui ci si
lamenta continuamente dello scarso livello dell’istruzione generalizzata
proprio constatando gli effetti dell’alfabetizzazione. Ovvero, nel leggere gli
status su Facebook di persone colpevoli di usare quegli strumenti culturali, la
capacità di leggere e scrivere, che un’istruzione forzata ha fornito loro. Allo
stesso tempo si invocano i bei tempi andati, quando una percentuale altissima
di persone partecipava democraticamente al suffragio universale senza
astenersi, dimenticando che una buona percentuale di quei votanti era
analfabeta (molti più di adesso, se non altro).
Tutti sostengono un nesso fortissimo fra istruzione e
democrazia ma la maggioranza delle dittature che conosciamo in realtà non
sembra proprio prendere sottogamba il problema dell’istruzione e non pare che voglia
far restare ignorante le sue masse: non lo fa Cuba, che conosce uno dei più
alti livelli di alfabetizzazione del mondo intero (nonostante il basso sviluppo
economico che per amor di pace attribuiremo solo all’embargo). Non lo fa la
Corea del Nord, anch’essa con un tasso di alfabetizzazione che molti paesi
occidentali invidiano e dove l’istruzione è obbligatoria per 11 anni. Non lo fa
la Cina (dove almeno l’istruzione ha avuto risultati molto buoni per quel che
concerne la crescita economica). Non lo faceva la Germania della prima metà del
secolo, dove se comunque si volessero tenere distinti i concetti di
indottrinamento ideologico e istruzione il livello culturale era molto alto
anche prima dell’avvento del nazismo, e anzi si potrebbe discutere del ruolo
avuto dalla diffusione di certe idee scientifiche nel propagare
l’antisemitismo. Un caso di lampante di dissonanza cognitiva è l’articolo di
“Tuttoscuola” (citato qui) dove
prima si sostiene che la Libia di Gheddafi figurava agli ultimi posti nella “classifica
di democrazia” stilata dall’"Economist",
poi si nota il buon livello raggiunto dalla Libia in termini di
alfabetizzazione per concludere allegramente che “il regime gheddafiano sembra
dunque non essere stato in grado di spegnere quel bisogno di libertà
e quello spirito critico che sono sempre e comunque connessi alla diffusione
dell’istruzione tra i giovani”. Qui si rivela tutta la potenza del mito: se una
dittatura cade dopo 42 anni è ovviamente merito dell’istruzione, non dobbiamo
chiederci in che modo l’istruzione abbia operato nei decenni precedenti, o cosa
stia facendo per i nord-coreani.
Può valer la pena di insistere sul fatto che chi scrive non è
affatto contrario all’alfabetizzazione di massa. Si vuol solo sottolineare la sua natura di
tecnologia fra le altre che non può essere in se stessa una inarrestabile forza
civilizzatrice ma i cui benefici dipendono dal sistema sociale nel quale è inserita.
Essa è indubbiamente un diritto fondamentale di ciascun individuo. Vorremmo
però affermare che fra i diritti forse non merita quel posto di tutto rilievo
che al suo cospetto fa sparire tutti gli altri diritti: dobbiamo difendere
anche il diritto di guardare i programmi di Maria de Filippi in televisione
(che sarebbe poi interessante capire per quale motivo non rientrano, al
contrario dell’epica, nel concetto di istruzione), il diritto di giocare ai videogame,
il diritto di guidare un’auto sportiva, quello di giocare a calcio o andare a
vedere le partite di calcio, di avere uno smartphone
ultimo modello, di vestirsi alla moda. Non si capisce, cioè, perché tutti
questi bisogni siano solo percepiti mentre solo quello dell’istruzione è
davvero e sempre necessario, e perché solo l’istruzione ci renda umani. Sogno
un remake del film di Romero Dawn of the
dead, dove i sopravvissuti invece di rifugiarsi in un centro commerciale si
nascondano all’interno di una grande biblioteca infestata da migliaia di zombi:
“perché vengono qui?” si chiede uno dei personaggi. “Forse perché, in quel poco
di barlume di vita che gli resta, tendono a fare quello che hanno sempre
fatto".
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mercoledì 31 dicembre 2014
liberismo e decrescita
Il mio modello economico è in fondo molto semplice: ognuno dovrebbe essere libero di scambiare ciò che vuole con chi vuole e cercare di procurarsi le cose che desidera e che lo rendono felice, possibilmente senza ledere gli eguali diritti altrui.
Non sono sicuro che “capitalismo” sia il termine più giusto per indicare un tale modello di società libertaria, ma è probabile che in fondo ne sia a un tempo la causa e l’effetto, dato che da un lato dalla libertà economica consegue la libertà di accumulare patrimoni e mezzi di produzione, e quella di acquistare e vendere lavoro umano tramite quei patrimoni; dall’altro lato il capitalismo sembra, pure se in modo non altrettanto perfetto, il modello più adeguato proprio a conservare e difendere quelle libertà, economiche e se è per questo non solo (non c’è davvero differenza fra il “liberismo”, odioso neologismo tutto italiano, e il liberalismo).
Certo, qualcuno potrebbe invece difendere il capitalismo per altre ragioni, ad esempio come modello virtuoso di darwinismo sociale e sopravvivenza del più forte, oppure come esemplificazione dell’etica protestante, o anche in maniera utilitaria come mezzo per garantire la più alta crescita economica e il maggiore aumento del PIL della nazione. A questo punto, in effetti, e anche ammesso che il capitalismo sia davvero la strategia più efficace per far crescere un indicatore come il prodotto interno lordo, uno si potrebbe chiedere perché dovrebbe essere un fine prioritario, o anche semplicemente un fine fra tanti, far crescere il PIL, far crescere l’economia di un paese.
Devo ringraziare Luca Simonetti che col suo recente libro, Contro la decrescita. Perché rallentare non è la soluzione, mi fornisce lo spunto per parlare di alcuni aspetti del modello economico del mondo contemporaneo che a quanto pare vengono severamente criticati dai cosiddetti “decrescisti” o fautori della "decrescita felice". Esiste una corrente di pensiero, della quale nel libro di Simonetti vengono esposte le motivazioni esplicite e le radici nascoste, insieme alle sue fallacie, che vede nel “dogma della crescita economica”, o detto in maniera più terra terra e comprensibile agli umani, nel consumismo sfrenato e nella volontà di accumulo tipica dell’uomo bianco ecc. ecc., l’origine di tutti i mali della nostra civiltà (edit: mi si fa giustamente notare che consumismo e volontà di accumulo siano in realtà termini in opposizione, ma in fondo va bene, dato che non considero coerente il discorso dei decrescisti).
Quello che i decrescisti propongono è di ritornare al modello primitivo dell’autoconsumo, dove ognuno produce per sé solo quello che gli è strettamente necessario per la sopravvivenza mentre tutto il resto sarebbe amorevolmente scambiato ma non in vista di un guadagno economico, non come “merce” ma sotto forma di “dono” fatto e ricevuto per puro amore e amicizia. Qualcosa del genere, i decrescisti sono molti e possono dire cose abbastanza diverse fra loro, anche se è comune una certa vaghezza e fumosità dei loro programmi. Il nucleo fondamentale sembrerebbe essere l’odio per il denaro, per la misura del benessere espressa in termini volgarmente monetari, e quindi l’identificazione della ricchezza con l’accumulo di beni materiali.
Come si può intuire, non esiste alcun motivo per cui io o qualsiasi persona di animo liberale dovrebbe opporsi a un simile programma di esistenza. Vuoi lasciare il tuo impiego di agente di borsa per andare a coltivare le vigne della tua tenuta ritenendo che sarai più felice? benissimo, è tuo diritto. Sarei più preoccupato se tu volessi impedire a me di fare quello che voglio, come sospetto che in effetti vorresti fare, ma a dire il vero i decrescisti si pongono solitamente in maniera più umile, non amano la politica e quindi non possono ambire a chissà quali azioni di massa o tentare di realizzare un movimento organizzato. Il loro scopo immediato è più quello di fare “massa critica” ritenendo che più persone si avvicinano al loro modello di esistenza mettendosi a fare i coltivatori diretti o – perché no – i cacciatori-raccoglitori, più si avvicina il momento in cui il capitalismo crollerà su se stesso, e proprio in virtù delle scelte compiute dagli eroici decrescisti.
Si potrebbero definire insomma delle persone piuttosto innocue, dato che le loro illusioni al riguardo sono naturalmente ridicole, ma è pur vero che alcune delle loro idee rappresentano luoghi comuni sul capitalismo, il consumismo, la mercificazione, e il neo-turbo-iper-fantasti-liberismo abbastanza perniciosi e dei quali probabilmente sarebbe meglio tentare di liberarsi. Una di questi è appunto il presunto dogma della crescita infinita. Come sostiene Simonetti i decrescisti vedono l’economia come un qualcosa di inarrestabile, un meccanismo che non può essere fermato o frenato se non in modo catastrofico, cioè quando finalmente si scontra coi suoi limiti. A questo proposito si possono ricordare in effetti le dichiarazioni soddisfatte dei politici quando il PIL cresce di qualche punto percentuale, e chiedersi in maniera legittima “ma perché è così necessario che il PIL cresca indefinitamente?”. Normalmente i decrescisti aggiungono anche un altro luogo comune, quello secondo il quale disastri naturali come un terremoto o un’inondazione avrebbero paradossalmente un effetto positivo sull’economia, dato che le spese per la ricostruzione entrano nel conteggio del PIL, il che renderebbe evidente l’assurdità di considerare il PIL come misura di progresso e benessere.
In realtà, spiega bene Simonetti, la scienza economica è esattamente il contrario di quello che sostengono i decrescisti, ovvero non dottrina fondata sulla dismisura, sulla mancanza di limiti, ma – secondo la classica definizione di Lionel Robbins – proprio scienza della scelta razionale da compiere in presenza di mezzi scarsi e applicabili a usi alternativi. Ma soprattutto ci viene spiegato che in realtà non c’è nulla da obiettare alle critiche dei decrescisti riguardo la crescita economica perché è tutto vero: in una economia di stampo liberista, al contrario di quello che potrebbe invece accadere in una economia pianificata di tipo sovietico, la crescita del PIL non dovrebbe essere l’obiettivo di nessuno. Ci si dovrebbe piuttosto chiedere, cosa che naturalmente i decrescisti si guardano dal fare, perché il PIL tendenzialmente cresca come conseguenza degli sforzi dei singoli di conseguire i propri obiettivi personali e indipendenti dagli indicatori economici.
Il PIL, che – ricordiamo – è la somma del valore di tutti i beni e i servizi prodotti in un paese entro un determinato periodo, aumenta perché tendenzialmente la gente si sforza di stare meglio e aumentare il proprio reddito e conseguentemente, senza per questo voler fare un dispetto ai decrescisti, si scambia beni e servizi. E in realtà il PIL, se si bada a non idolatrarlo e scambiarlo per un fine intrinseco è un buon indicatore dell’aumento del benessere: la gente non starebbe a scambiarsi tanti beni e servizi se non fosse per conseguire qualche scopo e non avesse qualche ragionevole aspettativa di farcela. Potrebbe pure valere la pena qui, anche se il tema non è direttamente collegato, di ridimensionare una delle leggende urbane più famose riguardanti il PIL: quella, come si diceva, per la quale un disastro naturale come un terremoto o perché no una guerra potrebbe avere l’effetto di aumentare il PIL (nonostante nessuno si sognerebbe certo di dire che sia aumentato il benessere).
Effettivamente la spesa per la ricostruzione rientrerebbe nel calcolo del PIL e quindi potrebbe anche determinare un provvisorio aumento dello stesso, ma si tratterebbe in realtà di un effetto di breve durata, cosa della quale possiamo gioire perché altrimenti ai nostri politici potrebbe venire l’idea di provocare artificialmente qualche disastro allo scopo appunto di migliorare gli indicatori economici. La credenza nell’effetto positivo per l’economia di un disastro è un esempio di quella che è nota come broken window fallacy (da una parabola dell’economista francese dell’Ottocento Bastiat): mandare monelli a lanciare sassi contro le vetrine dei negozi è certamente vantaggioso per il vetraio che si vede aumentare il lavoro e il reddito, e aumenta il flusso di denaro in circolazione. Questo però, diceva Bastiat, è solo l’effetto più superficiale, quello che possiamo vedere. Quello più nascosto, che non vediamo ma possiamo intuire se ci ragioniamo sopra, è la perdita in termini di opportunità, di usi alternativi del denaro speso in vetrine riparate. Il negoziante danneggiato si vede costretto in realtà a rinunciare ad altri acquisti e investimenti, che avrebbe fatto più volentieri, in conseguenza della spesa imprevista, o potrebbe addirittura essere costretto a contrarre un debito, in modo che alla lunga l’effetto sull’economia è nella migliore delle ipotesi neutro, molto più probabilmente negativo.
Tornando ai decrescisti, dunque, vediamo che essi imputano alla teoria economica neoliberista una caratteristica che in realtà è assolutamente estranea proprio al liberismo, ovvero la tendenza a voler “dirigere” l’economia, a intervenire nel settore macroeconomico e nelle scelte pubbliche in modo da manipolare gli indicatori. Quello che forse Simonetti (che fra l’altro non credo sia proprio un convinto fautore del liberismo) sottovaluta, tuttavia, è la misura nella quale i decrescisti hanno in fondo e forse inconsapevolmente ragione se ci riferiamo alla prassi economica attuale, che tutto è fuorché neoliberista. Nella stessa identica maniera è ormai un luogo comune riferirsi al capitalismo e al neo-liberismo come alle principali cause dell’attuale e infinita crisi economica, senza accorgersi che in realtà ce la stiamo prendendo col loro contrario, ovvero con le cattive politiche economiche attuate da governi e istituzioni come le banche centrali; istituzioni, quelle sì, sfrenate e insofferenti di qualsiasi limite alla loro potenza.
Ecco che in ultima analisi, quindi, siamo davvero tutti per la decrescita, se questo significa rinunciare a influenzare e ridurre il campionario di libere scelte a disposizione dei cittadini in nome di qualche obiettivo macroeconomico e politico, come possono essere la stabilità dei prezzi, come la benedetta crescita del PIL, come del resto l’aumento del livello di occupazione, o più verosimilmente l’aumento del livello di vita di particolari gruppi di interesse. Il che non significa certo che rallentare sia la soluzione: la soluzione, per tornare a crescere e prosperare, è lasciare che ognuno proceda alla velocità che desidera.
mercoledì 17 settembre 2014
l'ingenuità della fisica
Pare
che esista una maggioranza di persone che, alla domanda "se due oggetti
di massa diversa vengono lasciati cadere dalla medesima altezza, quale
arriva al suolo per primo?", rispondono che il più pesante arriva prima. Questo
potrebbe essere liquidato semplicemente come il frutto dell'ignoranza
generalizzata e della scarsa qualità delle nostre scuole (anche se credo
che il dato sia internazionale) e quindi occasione per l'ennesimo
lamento e invocazione sulla necessità di elevare il popolo alla
comprensione delle nozioni di fisica almeno più semplici.
Credo
che in realtà sarebbe un'occasione sprecata, usare il dato in questa
maniera, quando potrebbe costituire lo spunto per riflessioni ben più
interessanti. Vorrei tralasciare il fatto che di recente mi sono trovato coinvolto in una sgradevole discussione, nel mio social network di riferimento, solo per averci provato, sperando che il blog sia uno spazio più appropriato. In ogni caso può essere una piacevole digressione in attesa di ulteriori ricerche sui temi che ultimamente mi stanno più a cuore.
Intanto credo che siano davvero in pochi, fra quelli che sanno che i due oggetti dovrebbero arrivare insieme a comprendere davvero quali siano le forze fisiche in gioco (e posso mettermici anch'io, dopo tutto ho studiato altro): nella stragrande maggioranza dei casi si tratta semplicemente di una nozione appresa e assimilata senza rifletterci davvero. Anzi, la verità è che più ci si riflette e più è probabile sbagliare: non
è forse vero, per la legge di gravitazione universale di Newton, che la
forza esercitata dal campo gravitazionale terrestre è direttamente
proporzionale alla massa dell'oggetto in caduta? e non è forse vero, per
il secondo principio della dinamica, che l'accelerazione è direttamente proporzionale alla forza?
Altra
doverosa osservazione, e che spiega il condizionale di cui sopra, è che
nella vita di tutti i giorni noi sperimentiamo innumerevoli eccezioni o
"violazioni" alla legge fisica in questione. Per riuscire a osservare davvero una piuma che cade alla stessa velocità di un martello dovremmo fare come l'astronauta di questo video, e recarci sulla Luna, o almeno in una stanza in cui è stato fatto il vuoto. È vero che almeno gli oggetti della stessa forma e dimensione dovrebbero offrire la stessa resistenza all'aria (trascurando il principio di Archimede data la scarsa densità dell'aria) ma anche così il condizionale non si può togliere. Se faccio cadere una sfera di polistirolo da un grattacielo è abbastanza plausibile che il vento me la porti via e non riesca nemmeno a ritrovarla (senza contare che l'oggetto più leggero raggiungerà la velocità terminale prima di quello più pesante).
Osservazioni simili si possono fare anche per altre note leggi fisiche. Gettate un mozzicone di sigaretta dal finestrino di un treno in corsa, e si verificheranno due curiose conseguenze: vedrete il mozzicone schizzare all'indietro, nella direzione contraria al treno (ok, non è proprio quello che vedrete succedere, è quello che avrete l'impressione di vedere),
e inoltre prenderete una multa dal controllore. Questo forse spiega
come mai esiste anche una maggioranza di persone che risponde
erroneamente al seguente quiz. Per la precisione, il 49% delle persone interrogate secondo un esperimento avrebbe dato la risposta B mentre un 6% un veramente bizzarro A, cosa che tenderei a spiegare appunto come un errore di percezione.
Il curioso incidente è che – forse per un mio difetto di comunicazione – quando ho fatto queste osservazioni che intendevano solo giustificare la percezione dell'uomo comune sono state scambiate per un attacco alla persona e alla dignità di Galileo, o addirittura per una manifestazione di scetticismo nei confronti delle sue scoperte. In
realtà mi sembra pacifico che il modo migliore di omaggiare il genio di
Galileo sia proprio quello di mostrare come le sue scoperte fossero
tutt'altro che ovvie, proprio perché non facilmente e non direttamente
osservabili, o addirittura controintuitive, contrarie al senso comune.
Le
componenti fondamentali del metodo scientifico secondo un famoso passo
di Galileo sono le "sensate esperienze" (ovvero le esperienze fatte con i
sensi) e le "necessarie dimostrazioni" (ovvero il rigore
logico-matematico applicato al materiale dei sensi) ma con "sensate
esperienze" potremmo anche intendere, più modernamente, esperienze fatte
non a casaccio, ovvero quelli che oggi chiameremmo esperimenti. La grande lezione di Galileo è che la natura non rivela da sé i
propri segreti, ma ha da essere inquisita, interrogata, torturata, e
che se non la maltrattiamo in questo modo essa continuerà ad ingannarci. Non possiamo limitarci a tenere gli occhi aperti, occorre indagare attivamente e persino, se occorre, avere il coraggio di mettere in dubbio quello che vediamo o crediamo di vedere. Le necessarie dimostrazioni, in effetti, sono necessarie proprio per rimediare ai difetti della realtà, sempre imperfetta, il cui attrito se non eliminato con un gesto di eroico idealismo impedirebbe di formulare leggi matematicamente eleganti, prive di 'rumore'.
Se è innegabile che Galileo abbia compiuto tanti esperimenti sulle sfere che scivolano lungo piani inclinati scoprendo che cadono con una accelerazione costante (e indipendente dalla massa) occorre anche riconoscere che in gran parte le sue scoperte dipendono molto più dalla sua fantasia che dall'osservazione vera e propria. Ad esempio, è interessante il fatto che nel trattare la questione della caduta dei gravi, nei Discorsi e dimostrazioni matematiche sopra due nuove scienze, Salviati riesce infine a smuovere le convinzioni di Simplicio grazie a un ragionamento altamente speculativo:
se noi prendiamo due sfere, una più pesante e una più leggera, e le
leghiamo con una corda lasciandole infine cadere, cosa dovrebbe
succedere? Se fosse vero che l'accelerazione dipende dalla massa abbiamo
una specie di antinomia. Da un lato infatti dovremmo attenderci che
l'oggetto più leggero 'freni' la caduta di quello più pesante mentre
quello
più pesante dovrebbe 'tirare' il più leggero, ottenendo una velocità
intermedia. D'altra parte i due oggetti insieme hanno evidentemente una
massa maggiore di ciascuno di essi presi singolarmente,
e quindi la caduta dovrebbe essere più veloce. L'unico modo per uscire
dalla contraddizione sembra essere quello di ammettere che
l'accelerazione non dipende dalla massa.
Per
quanto riguarda la scoperta della relatività del moto rispetto al
sistema di riferimento, principio indispensabile per argomentare in
favore della teoria
eliocentrica (se è vero che è la terra a muoversi su se stessa e
intorno al sole, com'è che non ce ne accorgiamo?), è in realtà difficile
immaginare come ai tempi di Galileo potesse essere scientificamente dimostrata, piuttosto che presupposta appunto come necessaria ipotesi ad hoc. Galileo peraltro arriva
alla scoperta del moto inerziale sempre grazie ai piani inclinati, ma estendendo al regno del non
osservato e non osservabile quello che è già stato sperimentato: se
grazie ai piani inclinati possiamo osservare una costante accelerazione
che decresce al diminuire dell'inclinazione, è ragionevole assumere che
con un piano ad inclinazione zero anche l'accelerazione sarà nulla,
ovvero che la velocità sarà costante, il che significa che un corpo in
moto lungo di esso, in assenza di attrito, continuerà a muoversi
all'infinito finché non troverà una forza contraria.
È infine lo stesso Galileo ad ammettere di non aver mai sottoposto a verifica sperimentale il principio della relatività del moto, ricorrendo piuttosto e di nuovo ad un esperimento mentale, quello, famoso, del gran naviglio: "Riserratevi con qualche amico nella maggiore stanza che sia sotto coverta di alcun gran navilio, e quivi fate d'aver mosche, farfalle e simili animaletti volanti; siavi anco un gran vaso d'acqua, e dentrovi de' pescetti; sospendasi anco in alto qualche secchiello, che a goccia a goccia vadia versando dell'acqua in un altro vaso di angusta bocca...". Un esperimento simile venne effettuato solo una decina di anni dopo la pubblicazione del Dialogo da Gassendi, che fece cadere una pietra dall'albero di una nave in movimento. Possiamo però dubitare dell'accuratezza della misura dell'accelerazione della nave nonché del controllo delle forze che agiscono rispettivamente sulla nave e sulla pietra in caduta.
Ci si potrebbe anche chiedere, comunque,
per quale motivo la natura è così restia a svelarsi. Perché ci è voluto
così tanto tempo prima che Galileo scoprisse il modo in cui cadono i
gravi? In fondo la teoria per cui la velocità di caduta è proporzionale al peso sembrerebbe facilmente falsificabile. Di solito si invocano spiegazioni storico-culturali, ovvero la persistente influenza ed egemonia dell'aristotelismo. La spiegazione, benché quasi sicuramente corretta, è altrettanto
sicuramente incompleta o almeno elusiva, visto che resterebbe da
spiegare appunto la persistenza dell'aristotelismo. Non potrebbe essere,
allora, che le teorie aristoteliche ben si adattino a certe aspettative
psicologiche innate? Che il loro successo millenario sia dovuto proprio
alla loro corrispondenza non con la natura ma con la teoria fisica già
programmata nel nostro cervello? Sembrerebbe questa almeno per ora la direzione in cui conducono le ricerche di quel filone della scienza cognitiva che è lo studio della naïve physics, o anche intuitive physics, in italiano fisica ingenua (filone del quale proprio un italiano, Paolo Bozzi, è stato un brillante precursore).
Si tratta di un filone poco speculativo e assai empirico (potremmo anche chiamarlo "fenomenologia sperimentale") basato com'è sulle risposte comportamentali che i soggetti, talvolta i bambini in età prescolare, danno in certe situazioni controllate in laboratorio. Potremmo chiedere ad esempio a una persona di disegnare quella che secondo lei è la traiettoria più naturale di un certo oggetto o farla scegliere fra diverse simulazioni computerizzate, dove i parametri della velocità e dell'accelerazione sono sotto accurato controllo. Quello che ne emerge è appunto che le aspettative dell'uomo comune (per non parlare dei bambini) rispetto al comportamento degli oggetti fisici intorno a lui sono modellate secondo una metafisica, uno schema concettuale, in gran parte aristotelici, o che rispecchiano la teoria medievale dell'impetus. Secondo questa teoria, che del resto costituisce un'approssimazione tutto sommato corretta dei fenomeni osservabili sulla superficie terrestre, a un oggetto è impressa una certa forza, o impeto, da un soggetto agente (come colui che lancia la pietra), e l'oggetto si fermerà solo una volta dissipato, col tempo, l'impeto iniziale (in modo simile alla batteria di un cellulare).
Vale la pena sottolineare, qui, l'importanza della rivoluzione concettuale operata da Galileo, che ha cambiato la stessa struttura ontologica del mondo. Galileo non ha semplicemente fornito risposte giuste a vecchie domande, ma prima di tutto ha cambiato la domanda. Il giusto quesito, quello che occorre spiegare nel mondo post-galileiano, non è perché gli oggetti persistano nel loro moto, ma perché accelerano o decelerano ed eventualmente si arrestano. Il moto rettilineo uniforme è un non evento, o meglio non è distinguibile in assoluto dall'assenza di moto, dipendendo dal sistema di riferimento, e come tale non richiede spiegazioni o impeti di sorta. Peccato solo che questo non sembri essere il modo nel quale siamo programmati a pensare.
La stessa circostanza d'altra parte potrebbe essere verificata in altra maniera, ovvero analizzando la struttura profonda del nostro linguaggio. Potremmo non essere piú sorpresi della difficoltà nell'assimilare concetti fisici neanche troppo astrusi (dopo tutto non stiamo parlando di fisica quantistica coi suoi paradossi davvero sconcertanti) quando si riconosca che tali concetti sono espressi in un linguaggio che non è pronto ad accoglierli, che sottende una metafisica di tutt'altro tipo. È abbastanza sorprendente in realtà che la nostra mente riesca ad emanciparsi dalle sue categorie inscritte.
Secondo Leonard Talmy noi concettualizziamo gli oggetti come ricadenti in due grandi gruppi, che sono come i personaggi di un dramma dalle possibilità di intreccio piuttosto limitate: da una parte stanno gli agonisti, con la loro intrinseca tendenza a muoversi oppure al riposo, dall'altra gli antagonisti, che si oppongono alla tendenza degli agonisti impedendone l'azione o il riposo, oppure li aiutano o ne permettono l'azione. La semantica dei verbi rispecchia le possibili varianti dell'intreccio: ci sono verbi che esprimono direttamente causalità (causare, produrre, fare sì che, determinare ecc.), alcuni dei quali incorporano la natura dell'effetto (lanciare, sciogliere, colorare ecc.). Ci sono poi verbi che esprimono impedimento (prevenire, impedire, arrestare, fermare, bloccare ecc.) e altri che esprimono il contrario dell'impedimento (cioè permettere, lasciare che, concedere, aiutare, ecc.). Le categorie espresse da questi verbi e il modo in cui vengono costruite le frasi sono il prodotto di un preciso modello mentale, una sorta di teoria innata della causalità, come si diceva, trasversale alle varie lingue parlate nel mondo. La tendenza della mente a identificare un prototipico antagonista che agisce su un agonista passivo si riflette ad esempio nel nostro modo di costruire enunciati controfattuali, nei quali fra le molteplici condizioni necessarie al succedersi di un evento ne viene privilegiata una sola.
Nella fisica post-galileiana, a differenza che nel linguaggio, ad ogni azione corrisponde una reazione, e nessuno degli oggetti interagenti viene privilegiato o isolato. Nel linguaggio corrente, a differenza che nella fisica, un oggetto ha una intrinseca tendenza al riposo o al movimento, senza una terza alternativa. Nel linguaggio corrente, quasi animistico, concepiamo antagonisti e agonisti come perdenti o vittoriosi in un sorta di braccio di ferro dove alla fine uno dei due ha la meglio, mentre nella fisica azione e reazione sono sempre uguali. Nella fisica, infine, le cause o le condizioni sono tutte uguali e le cose succedono senza che vi sia la distinzione che il linguaggio opera fra "permettere", "impedire", "aiutare" eccetera. Anche il linguaggio sembra insomma cospirare nel suggerire una teoria simile a quella dell'impeto, dove gli oggetti hanno la loro intrinseca forza traente con altri oggetti che la possono bloccare o favorire.
Per concludere, credo che le morali della storia siano due. Una è che non dovremmo mai sentirci superiori a qualcuno in virtù di quello che sappiamo, ma semmai, e con un grosso forse, solo di quello che capiamo intimamente. L'altra è che le favole sono belle, ma solo quando c'è scritto 'favola' in copertina, altrimenti è più bella la complessità del reale. Vale anche per la storia della scienza.
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